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Do you have only one bed?

A collection of questions on contemporary living, curated by S. Mirti, text by R. Giudice.
Milan Triennale (MI)
“Per quanto tu possa camminare, neppure percorrendo tutta la via potrai raggiungere i confini dell’anima, talmente profondo è il suo logos”: così Eraclito, nella reminiscenza/parafrasi di una traduzione del nr. 45 dei frammenti rimasti del suo pensiero: e non di rado accade che le novità dell’ultima ora gridate con tutti i mezzi a disposizione non facciano che da eco alle voci potenti che ci giungono da molto lontano e da dove meno uno se l’aspetterebbe. Pensiamo, perciò, al mandato che, da William Blake, venne ripreso negli anni Sessanta del secolo ultimo scorso da Timothy Leary e Allen Ginsberg: “Il messaggio è: allargate l’area della coscienza.” Fatto, saremmo tenuti a dire dando retta alle sirene del brave new world che ci si prefigura a tinte arcobaleno. Sennonché, appunto: per quanto possano essere ampliati i nostri standard percettivi, per quanto possano essere dilatati, per mezzo di supporti tecnologici o psichedelici, gli orizzonti della (in senso lato) visione; pur col ricorso a mezzi che potenzino e aumentino le possibilità di cui disponiamo e anche, a quanto pare, come se non bastasse quella che c’è, la stessa realtà, ci troveremo entro limiti in cui converrà abitare. Non si resta stranieri troppo a lungo, con o senza diritto di cittadinanza. 
Da qui, il discorso/percorso condurrebbe altrove, ma se pensiamo all’abitare, spazio imprescindibile è la camera da letto: dove il logos trova espressioni, dall’erotico all’onirico all’inerzia più (o quasi) completa, che schiudono frontiere da esplorare quanto sembra che esse ci attraversino, senza attenersi a limiti definiti; ma che, per restare al discorso in quanto tale e al logos in senso lato, fa del letto, metaforicamente, una pagina, una sacca da viaggio a occhi aperti o chiusi, una tasca in cui riporre ciò che è a portata di mano. Giovanna Vinciguerra non deve scandagliare questi spazi, tantomeno farsene guida: il mezzo per delimitarne i contorni, per abitarli anche solo provvisoriamente, però, è lei a offrili, senza chiedere altro pedaggio che stare al gioco interattivo. Un gioco di ruolo, ma che riguarda le regole del gioco inteso come gioco delle parti: le sue micro-camere, le sue pochette da riempire sono fogli in cui stendere appunti, foto messe a asciugare, panni appesi in attesa di diventare bandiere di preghiera. E come fogli, da scrivere o da leggere, in quello scambio di ruoli che l’arte interattiva/performativa esige in quanto esplicita ciò che nell’atto della lettura, nel momento dell’interpretazione mette in discussione, stanti le teorie strutturaliste sullo scorcio anni Sessanta, divisione e gerarchie dei ruoli fra autore e fruitore.
Il suo invito – proposta e insieme, sfida – al destinatario della missiva senza intestazione da lei affrancata, è di uscire dall’abitare/abitudine a stare nella rispettiva sacca difensiva (per entrare in un laboratorio dell’Oulipo, dove sperimentare tutte le possibilità di un testo e risolvere i vincoli di un’opera in meccanismi al servizio dell’invenzione): in modo tale, però, che, nell’intervento di chi voglia uscire dal guscio per prestarsi alla pro-vocazione, per abitare il territorio dove si muove l’artista, l’interpretazione dei sogni, nell’incontro fra la libertà dell’autore e del fruitore, liberi entrambi, al punto da passare da una parte all’altra, ne realizza o mette in atto qualcuno: ma non è chiaro – e non importa – di chi. (Viene in mente l’apologo di Chuang Tze che sogna di essere una farfalla, se non è questa a sognare di esser lui). Perché chi scrive/decora/dipinge è inscritto nello spazio di possibilità che Giovanna Vinciguerra ha assegnato: e essere artista e parte dell’opera con cui si interagisce, quasi essendone una struttura mobile, è un diverso abitare l’opera, piuttosto che esserne semplici spettatori. E si capisce che il gioco va oltre – a proposito di limiti – la definizione di uno statuto o un nuovo contratto sociale fra chi fa, produce arte e chi ne accetta più o meno passivamente l’auctoritas, se vale ancora contestarne la legittimità quanto a quel che ne rimane. Cosa, allora? Qualcosa che può essere meno facile da scorgere a primo acchito, sotto l’effetto-sorpresa di un’arte performativa/interattiva: un principio di responsabilità che non corrisponde a una dimissione o a una delega nemmeno degli uffici artistici.
Rocco Giudice
 
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